La riduzione della varianza

Meno nevicate, ma anche meno record di caldo

Introduzione

Qualche giorno fa comprai il libro sulla storia del clima di Piacenza, opera del meteorologo Luca Mercalli e di uno staff che con passione e dedizione ha impiegato tempo e fatica per digitalizzare i ben 153 anni di osservazioni meteorologiche condotte dai padri dell'Osservatorio Alberoni. Da buon meteoappassionato, diedi subito un'occhiata alla serie nivometrica ultracentenaria, che annovera accumuli invernali a tripla cifra con frequenza del 20% prima del 1920, e media annua sui 60 cm. Altri tempi, ma anche altre temperature: i primi anni della serie presentano caratteri meteorologici ereditati dalla PEG, tanto che i primi del 900 osservano un riscaldamento di circa 1°C delle temperature medie invernali, prima di un assestamento su un valor medio di +1,5°C stagionale tra il 1920 e il 1990. Di riflesso, si riduce leggermente anche la nevosità, scendendo attorno ai 50 cm annui. Gli ultimi 30 anni hanno infine risentito del riscaldamento antropico, guadagnando rapidamente altri 2°C medi sui precedenti trimestri dicembre-febbraio, con conseguente importante calo della nevosità.

Tutto questo per soli 2°C in più

Nella tabella dedicata al dettaglio mensile delle temperature, però, ho trovato dei dati sbalorditivi a dir poco: i mesi più freddi e nevosi degli anni 2000, le cui cronache popolano il web con epiteti siberiani, sono gennaio 2006 e febbraio 2012, gli unici con temperatura media inferiore allo zero, rispettivamente -0,6°C e -0,5°C. Ciò corrisponde ad una frequenza di un mese ogni 10 anni con temperatura media negativa, se si prendono in considerazione gli anni 2000. E pertanto, tenendo conto dell'aumento di circa 3°C rispetto al periodo 1872-1901, dovremmo aspettarci la stessa frequenza di inverni con temperatura media inferiore a -3 per i primi anni della serie alberoniana. Invece, andando a ritroso, ritroviamo il primo mese con temperatura media inferiore a -3°C nel non lontano gennaio 1985 (-3,8°C), ma già dagli anni 60 e andando a ritroso la frequenza raddoppia.

anni 60
anni 50
 anni 40
 anni 30
 anni 20
anni 10
01/63 -3,1°C
02/56 -4,0°C
01/40 -3,3°C
01/35 -3,1°C
02/29 -5,7°C
02/11 -3,3°C
01/64 -3,0°C

01/45 -3,3°C





01/47 -5,6°C



Considerando, infine, il periodo 1872-1901 troviamo ben 8 mesi con temperature inferiori a -3°C, tra i quali spiccano peraltro numerosi inferiori a -4°C, come il dicembre 1879 ed il gennaio 1880, caratterizzati da un'incredibile permanenza del gelo, e che vantano entrambi una media di -7,0°C! Entrambi, inoltre, ebbero una media negativa delle temperature massime (-2,1°C), mentre la rispettiva media delle minime notturne fu di -11,9°C e -12,1°C. Si tratta di valori glaciali, del tutto anomali anche per l'epoca: si pensi che l'inverno 1879-1880 registrò una temperatura media di -4,4°C e che si chiuse con oltre 50 giornate di ghiaccio (ovvero a temperatura mai sopra gli 0°C). Tuttavia, pur tralasciando l'evento eccezionale, non era così raro osservare mesi sotto la soglia di -3°C durante la fine del XIX secolo, tanto che, avendone contati 8 su 30 anni, possiamo affermare che la loro ricorrenza fosse di ben 2,7 volte ogni 10 anni, il triplo di quanto atteso. D'altra parte, ripetendo lo stesso giochetto con le anomalie al rialzo, ovvero cercando il numero di mesi invernali con temperatura media oltre 7°C per il periodo 2001-2020 e quelli sopra i 4°C per il periodo 1872-1901, ne contiamo 2 per il primo periodo contro i 13 per il secondo, quello più antico. Ciò corrisponde a una frequenza di 1/10 per i primi 20 anni del XXI secolo, mentre per gli ultimi 30 inverni del XIX secolo la frequenza era ben più alta, attorno quasi 1/2! Questo implica che, al crescere della temperatura, è diminuita la variabilità stagionale, e quindi la varianza, il che giustifica anche una così importante riduzione del numero e dell'intensità delle ondate di gelo, nonchè, in ultima istanza, della frequenza ed abbondanza delle nevicate. Inverni che ormai si attestano su temperature medie prossime ai 4°C hanno già poche chances di ricevere visite da parte della dama bianca rispetto al passato a meno di forti oscillazioni di temperatura, ma se proprio queste ultime si riducono allora le possibilità diventano quasi trascurabili.

Il ruolo della riduzione della varianza

Per dimostrare il ruolo giorcato dalla varianza indipendentemente delle variazioni di temperatura, ho preso in esame gli ultimi 40 anni, sia per avere una maggiore risoluzione dei dati e quindi evidenziare il ruolo giocato dalla varianza, sia per dimostrare come questa, pur in un contesto di temperature in aumento (gli ultimi 40 anni hanno osservato la massima velocità di riscaldamento), possa ancora fare la differenza favorendo inverni dinamici e nevosi. Il grafico sottostante fa riferimento agli ultimi 40 anni, e permette di effettuare uno zoom sulla curva relativa alla deviazione standard (rappresentativa quindi della varianza) in modo da cogliere le oscillazioni di breve periodo che non emergono dalla visione d'insieme sull'intera serie storica. Si possono individuare due picchi, corrispondenti rispettivamente alla metà degli anni 80 e alla fine degli anni 2000, e due valli, una negli anni 90 e l'ultima iniziata lo scorso decennio e tutt'ora in corso. All'andamento della varianza ho sovrapposto l'accumulo nivometrico, sempre riferito al mese di gennaio per coerenza, e si vede chiaramente come la quantità di neve sia strettamente dipendente dalla variabilità termica inter-stagionale. Difatti, sebbene la base-line della temperatura media di gennaio continui ad alzarsi, solo un aumento delle oscillazioni, mensili, inter-stagionali e inter-annuali (l'ultimo è il caso che stiamo analizzando in questo paragrafo), può permettere di avere ancora mesi di gennaio freddi e quindi discretamente nevosi.

grafico varianza
Varianza media mobile 30 anni
dettaglio varianza
Varianza ed altri parametri

Dimostrazione

Per concludere, ritrondando al primo grafico, possiamo constatare come la deviazione standard su base trentennale per il mese di gennaio sia passata dagli 2,9°C della fine del XIX secolo ai soli 1,5°C del XXI secolo. Ciò vale a dire che, mentre in passato il 70% dei mesi di gennaio si collocava a +/-2,9°C dalla media (più fredda) dell'epoca, oggi la stessa percentuale di mesi si concentra in un lasso termico molto più ridotto. Stando alle regole della probabilità gaussiana, solo il 4,55% dei mesi si colloca al di fuori del range di 2 deviazioni standard (si tratta dei mesi eccezionali). Oggi questo valore corrisponde a +/-3,0°C dalla media recente, che per gennaio corrisponde a +2,45°C sul periodo 2001-20, il che significa che gennaio 2025 ha la stessa probabilità di chiudere con una temperatura media di -0,5°C che ha di chiudere a +5,5°C, ed ha meno del 5% di possibilità di chiudere al di fuori di questo range. La probabilità di avere un gennaio più freddo di -0,5°C è la metà, dunque circa il 2%. Applicando qualche calcolo matematico si può ricavare la probabilità che il prossimo gennaio sarà più freddo di 0°C, e si ottiene un valore corrispondente al 5%. Quindi, al giorno d'oggi abbiamo il 5% di probabilità di registrare un mese di gennaio con temperatura media negativa (uno ogni 20 anni, coerente con i dati dell'Alberoni) nonostante fino alla fine degli anni 60 la ricorrenza fosse del 50%. Supponendo, invece, la deviazione standard di fine 800 sulla temperatura media odierna, otterremmo comunque una probabilità molto maggiore, circa il 20%, quindi quadrupla. Ma, poichè nel periodo 1872-1901 la media termica di gennaio era di -0,63°C, il contributo di una deviazione standard maggiore non faceva che esasperare gli sbalzi da mese a mese, favorendo talora mesi non troppo distanti da quelli molto miti cui ci siamo abituati e altre volte mesi letteralmente gelidi, con temperature medie inferiori a -5°C. Applicando lo stesso calcolo probabilistico al clima del passato, pertanto, otteniamo che i mesi con ricorrenza molto rara (oltre 2 sigma sopra o sotto la media) sono quelli più freddi di -0,63-2,9=~-3,5°C e quelli più caldi di -0,63+2,9=~+2,3°C. Di conseguenza, la probabilità di registrare un gennaio con temperatura media negativa era enormemente maggiore e addirittura maggioritaria, pari al 59%. Per concludere con un pizzico di ironia, la probabilità di registrare un mese di gennaio con la temperatura del 1880, pari a -7°C, all'epoca era soltanto dell'1,4%, ma oggi è di 1,49*10-10 (praticamente nulla)

Conclusione

Abbiamo quindi capito che il principale motivo della riduzione della nevosità è senz'altro la drastica diminuzione delle variazioni di temperature (ondate di caldo e di freddo rispetto alla base-line del periodo), mentre l'effetto dell'innalzamento delle temperature medie non è tanto quello di limitare le nevicate, bensì quello di ridurre appunto la varibilità meteorologica, ed è a quel punto che anche una base-line più alta di soli due grandi può causare un'importante riduzione delle ondate di freddo e delle nevicate. La minore variabilità potrebbe essere frutto della riduzione di gradiente latitudinale, poichè l'Artico, avendo patito la perdita di ghiacci a causa dell'innalzamento delle temperature, ha osservato una riduzione della superficie con elevato albedo, e questo si è tradotto in un meccanismo di retroazione positivo che ha creato la cosiddetta amplificazione artica, il fenomeno di riscaldamento accelerato della regione polare rispetto al resto del globo. Questo ha provocato lo spostamento verso nord del fronte polare nonchè del track dei cicloni extratropicali e della zona dove avvengono i contrasti meridiani, con conseguente aumento della nevosità in quelle regioni come il Baltico, la Siberia e il Canada che un tempo osservavano poche precipitazioni nevose, mentre adesso assistono ad un loro aumento pur a dispetto di un aumento delle temperature. Anche il bacino padano, essendo caratterizzato da un clima chiuso che permette la massima espressione del fattore microclimatico, ha risentito in inverno dello stesso meccanismo di feedback alla base dell'amplificazione artica: la riduzione delle nevicate ha prodotto temperature medie più alte, evento che a sua volta riduce la permanenza della neve al suolo e quindi l'effetto albedo.

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